SINDROME DI TRIGORIN

Scrittori sull’orlo di una crisi di nervi.

 

Trigorin: Che ha di bello la mia vita? (Guarda l’orologio)
Sentite, non ho tempo, bisogna che vada a scrivere. (Ride)

Parliamo, parliamo della mia bellissima brillantissima vita.

Giorno e notte sono posseduto da un unico pensiero ossessionante: devo scrivere, devo scrivere, devo scrivere, devo, devo…

È una vita assurda. Ecco, io sto qui con voi, discuto, mi appassiono, ma nello stesso tempo, ogni secondo, mi ricordo che c’è un racconto non finito che aspetta. Vedo, non so, ecco, una nuvola, che somiglia a un pianoforte a coda. Penso: devo ricordarmi in qualche racconto che nel cielo nuotava una nuvola simile a un pianoforte a coda.

Annoto, annoto. Prendo appunti. Sto col fucile puntato, acchiappo al volo, pesco, da voi, da me, ogni frase, ogni parola e corro immediatamente a chiuderle, tutte queste frasi, nella mia cassaforte letteraria: chi sa, possono servire! Appena finito un racconto, corro a teatro, o a pescare: per sgranchirmi un po’, riposare, dimenticare; macché…in testa mi rotola già una pesante palla di ferro: un nuovo soggetto che mi attira, mi trascina, mi costringe alla scrivania: scrivi, scrivi!

Non mi do mai pace! E sento che mi sto succhiando la vita…

Un uomo come me non è pazzo?

Anche negli anni in cui ero giovane, gli anni migliori, quando ho cominciato, scrivere per me era un tormento senza fine. Un piccolo scrittore, specie quando non ha ancora sfondato, si sente goffo, incapace, superfluo…

Nessuno lo conosce, nessuno l’apprezza; anonimo, solitario, infelice; ha paura perfino di guardare la gente negli occhi. Come un giocatore che muore dalla voglia di giocare ma non ha un soldo in tasca.

Quando scrivo, non è male. Anche le bozze, correggerle, è piacevole. Ma appena il libro è stampato, già non lo posso più vedere, mi sembra tutto sbagliato, non è quello, non dovevo scriverlo, mi viene una rabbia, una tristezza… (Ride) Poi il pubblico legge: “Sì, carino, ha del buono”; “È bravo, ma Tolstoi? Eh, ci vuol altro!”.

Il peggio è che vivo sempre in una nebbia.

Nina: Cosa scrivete?

Trigorin: Appunti… M’è venuta in mente un’idea… (Nasconde il taccuino) Un soggetto per un breve racconto.”

[Tratto da “Il gabbiano” di Anton Cechov] 

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Io ce l’ho.
Quella che si potrebbe definire la “Sindrome di Trigorin”, io ce l’ho.
Non ho né il successo né la fama del personaggio di Cechov, ma tutte le sue psicosi… ecco, quelle sì. (Ovvio.)
E non è curabile. Chi ti ama ti deve accettare così, perennemente matta e con la testa per aria.

Chi mi ama, infatti, lo sa che io non sono mai veramente lì al 100%, perché una parte di me sta analizzando e memorizzando qualcosa di quel momento per poterne poi scrivere.

Sanno che quando mi parlano ci sono alte probabilità che prenda spunto dalle loro frasi. E che ci sto già pensando, mentre li ascolto.
Sanno che se trovano il telefono staccato è perché l’ho staccato magari ore prima per scrivere e poi mi son dimenticata di ri-attaccarlo. Idem per il citofono.

Quando vengono a trovarmi a casa, scavalcano, con paziente affetto, pile di libri accatastati “temporaneamente” (…) qua e là sul parquet, per riuscire ad andare a sedersi sull’unico angolo di divano lasciato libero da fogli, blocchi, quaderni, ecc. sparsi su ogni superficie piana della casa.
(“Un tornado, in casa tua, potrebbe solo fare ordine!” mi dice sempre una mia amica.)

Quando siamo a teatro, al cinema, a passeggiare in centro o al parco o quel che è, estraggo più e più volte pezzi di carta e una penna dalla borsa per appuntarmi qualcosa; è di prassi, ormai non si stupiscono nemmeno più (sorridono e scuotono la testa, ma non si stupiscono).

Quando chiedo: “Scusa, potresti ripetermi l’ultima frase che hai detto, esattamente come l’hai detta?”, chi mi ama lo fa, me la ripete, e senza denunciarmi per stalking.

Nei ciclici momenti di sconforto, i momenti del: “Ma valgo qualcosa? Ce la farò mai davvero?”, chi mi ama risponde quasi inserendo il pilota automatico. “Certo che ce la farai! Sei la migliore! Hai così tanto talento… Figurati!”
(Magari stanno sfogliando una rivista, mangiando una fetta di torta, giocando col cane. Pilota automatico e via.)

Quando racconto che fino a poco prima stavo parlando coi miei personaggi, chi mi ama non mi chiede più cose tipo: “Ma loro ti rispondono?!”
Non me lo chiedono perché lo sanno già.
Sì. Certo che mi rispondono! Starò mica parlando da sola?! Ts.

Sanno che quando finisco una storia lunga e ne esco, entro in una specie di tunnel psicotico tipo: ma io chi sono?! E dove sono stata per tutto questo tempo?! (Chiamasi fase di transizione dal mondo immaginario alla realtà. Ed è sempre un casino, perché in me il mondo immaginario ha da tempo preso il sopravvento sul mondo reale. Un casino.) Quelli che mi amano lo sanno. E aspettano tranquilli che gli ansiolitici facciano effetto.

Sanno che se piango a dirotto perché a un mio personaggio è successo qualcosa… è normale. E sanno che, quando correggerò e ri-correggerò le bozze, ogni volta ri-piangerò. È normale.

Non si stupiscono se, entrando in casa mia, trovano scritto su un post-it, in grande, che giorno è. Perché sanno che, se sono persa in una storia, non ricordo che giorno è. E finiscono per trovarlo normale pure loro.

Ecco, questo è quello che succede con quelli che ti amano.

Consiglio, invece, di non mostrare apertamente questa sindrome agli estranei; perché mentre  amici e familiari guardano con affetto e simpatica, tenera compassione alla tua pazzia, gli estranei potrebbero chiamare direttamente la neuro.
Quindi, a meno che vogliate finire in un posto con le pareti di gommapiuma… imbottitevi di camomilla (o altro) e ssssssssssssssssh! notepad-117597